Da qualche settimana impazza sui social network la lettera che un allenatore di una scuola di calcio per bambini, la Real Virtus, ha scritto alla mamma di un bambino della squadra da lui allenata (clicca qui).
Si sprecano le dichiarazioni di ammirazione verso questo allenatore e le implicite tirate d'orecchie per la mamma.
Il bambino, iscritto alla scuola di calcio, non riusciva a esprimersi, giocava poco, stava tanto in panchina. In una parola, era scarso.
La mamma, dopo un po' di tempo, ha pensato di ritirarlo. Da questo gesto, nasce la lettera tanto ammirata dell'allenatore.
In questa lettera egli scrive che “si puà migliorare tantissimo, lavorando sui suoi limiti”.
In sostanza, questo allenatore sostiene che non è tanto importante seguire i propri talenti quanto incaponirsi sulle proprie debolezze, anche quando ciò porti a risultati del tutto mediocri come i suoi. Meglio godersi la propria frustrazione che regalare il proprio talento al mondo sembra dire.
Questa concezione é veramente tutto il contrario di quanto sostengo da anni, dalla cultura del talento che da tempo cerco di portare nelle organizzazioni.
Gli individui si realizzano esprimendo e finalizzando i propri talenti, non flagellandosi sulle proprie debolezze! Il miglioramento delle competenze carenziali, ha senso nella misura in cui é funzionale all'espressione del talento: l’ossessione volta a "colmare i gap” si è rivelata quasi del tutto fallimentare.
Mettere a frutto il nostro talento: questo é il vero regalo che possiamo fare al mondo. Non é poi una novità, basta rileggersi la parabola del talento.
Al mondo non interessa quanto siamo bravi a soffrire, al mondo interessa che diamo il meglio di noi.
Ma é difficile, certo. Molto più facile trincerarsi dietro le proprie debolezze. Come diceva Mandela, non ci fanno paura le nostre ombre, ma le nostre luci. Le prime infatti ci forniscono gli alibi dei nostri fallimenti, le seconde ci chiamano a nuove assunzioni di responsabilità.
L’allenatore porta anche la sua testimonianza: "Glielo dice uno che, una volta, non aveva spazio a Passaggio di Bettona, nella squadra dei suoi amici e coetanei. A 14 anni stavo per smettere di giocare, andai a giocare in un altro ambiente, a Cannara, e trovai lì modo di esprimere al meglio quello che avevo dentro. Di migliorare, di vincere tante partite, tante quante ne avevo perse a Passaggio quando, oltretutto, non venivo molto considerato dall’ambiente e dall’allenatore. A Passaggio di Bettona ci sono tornato a 20 anni, dopo aver vinto anche un campionato nazionale juniores per squadre dilettanti, con il Cannara.”
Appunto, verrebbe da dire.
Ha fatto benissimo quella mamma! Che aiuti il figlio a concentrarsi su ciò che gli riesce facile e bene e trovi il coraggio di mandare a quel paese chi cerca di impedirglielo.
Quando ero bambino, frequentavo un corso di nuoto. Non faceva per me. L'insegnante era (o mi pareva) un'arpia: mi teneva la testa sott'acqua e contava: uno, due, tre, quattro.... Per farmi prendere confidenza con l'acqua, diceva.
Un giorno cercai di divincolarmi, non sopportavo quel gesto, urlavo e tossivo, ma lei continuava accanendosi. Eh già, così si educano i bambini a "colmare i gap"!
Mia mamma che assisteva sui gradoni a bordo piscina, si avvicinò e disse all'istruttrice che mi avrebbe portato via e mi avrebbe ritirato dal corso. L'istruttrice la rimproverò: non é così che si educano i bambini! Mia mamma le rispose: lei pensi a insegnare nuoto che a come si educa mio figlio ci penso io!
Quanto le ho voluto bene.
Tieni duro mamma del bambino scarso a calcio: fra cinquant'anni te ne sarà grato come io lo sono a mia mamma.