Lo scorso 9 aprile, è stato pubblicato sulla rivista online Veneziepost un interessante commento sul libro Il dono del’imperfezione.
Il commento riporta la firma di Luca Vignaga, HR Manager di grande valore.
Ecco il testo.
In un’intervista fatta lo scorso 5 Marzo da Aldo Cazzullo a Pupi Avati, il regista ricordava che l’amicizia con Lucio Dalla cominciò male in un’osteria di Bologna: “Quando lo sentii suonare capii la differenza tra passione e talento. Lui era amato dalla musica, io no. Io ci mettevo giorni a fare un pezzo, lui dopo un attimo lo faceva. Così decisi di lasciare perdere, fu la musica che mi estromise e io pensavo che non avrei più coltivato nessun sogno. Sbagliavo”. Non a caso Pupi Avati è diventato uno dei maggiori cineasti italiani scoprendo i suoi veri talenti. In tempi dove è difficile trovare un lavoro, spesso ai ragazzi si chiede quale sia il loro talento, o meglio i loro talenti. E’ una domanda che suscita sempre grande imbarazzo perché si pensa che il talento sia una cosa eccezionale, rara, ad uso di poche persone. Non si riconosce al talento, invece, la capacità di essere distribuito come l’aria. Il punto sta nel riconoscere i propri talenti e su questo costruire una professionalità che va al di là di un singolo mestiere. I talenti sono elementi che contraddistinguono ognuno da noi e che ci fanno essere differenti dagli altri. Certo, alcuni sportivi, musicisti, scienziati dispongono di talenti particolari che sono facili da vedere alla luce del sole. Altri, cioè la gran parte di tutti noi, necessitiamo di andare alla ricerca dei nostri talenti per coltivarli come Diogene usava la sua lampada in pieno giorno per cercare l’uomo. Non si può dire che non abbia un talento il giardiniere che riesce a far rinascere piante che noi comuni mortali pensavamo fossero morte; capita di riconoscere nel collega il talento di fare un report con una particolare precisione e capacità di arrivare all’elemento essenziale della questione. Il punto sta nel passare “dalle persone di talento verso il talento delle persone” evitando una serie di trappole come quella di confondere i talenti con le passioni. In Italia, negli ultimi dieci anni, i coach – molti improvvisati - sono spuntati come i funghi in stagione: ad un certo punto diventeranno un numero superiore degli stessi coachee. L’autogrill, che rimane ancora il più interessante laboratorio della società del nostro tempo, mostra nelle classifiche dei libri come, accanto alle diete, la bibliografia sui temi della crescita personale sia diventato un grande business, e lo sarà sempre di più. Non lo dico con disprezzo, a maggior ragione se vi sto proponendo un libro che si inserisce a pieno titolo in questa categoria. Che ognuno di noi abbia la possibilità, oltre che il dovere, di migliorarsi, mi sembra scontato: è una delle opportunità del nostro tempo. In realtà è una storia vecchia quanto l’uomo, cioè da quando il serpente offrì ad Adamo ed Eva il frutto della conoscenza per diventare Dio nell’uomo si è inserito il desiderio di essere qualcosa di diverso. Il tema semmai è quello di avere la giusta scala per tutti: non chiedere di diventare ciò che non si può essere, es. Dio; considerare l’ordine dei valori che ognuno dà alla sua vita: non misurare tutto con il metro del successo delle star. A questo si aggiunge: ricevere delle “lezioni” da soggetti che siano effettivamente titolati a farlo. Il mondo della consulenza è pieno di personaggi da baraccone che assomigliano più a degli affabulatori della parola o a degli urlatori di false speranze, che degli “esploratori di senso”. Alessandro Chelo, la cui ultima fatica si intitola “Il dono dell’imperfezione”, a mio avviso appartiene a questa ultima categoria anche perché, proprio sul tema del talento, ha dato prova di indagine in tutti i suoi libri. Mi verrebbe da dire che il talento, e la sua scoperta, è la cifra che lo contraddistingue nel suo lavoro di ricerca. E lo conferma questo libro molto intimo. D’altra parte parlare di imperfezione senza parlare di se stessi, risulta alquanto difficile. Più che un manuale, è una lunga conversazione dentro di sé, in cui Chelo trova le parole per riconciliarsi con la sua famiglia allargata e, in particolare, con la figlia Vanessa. Le sue crepe ha deciso di metterle a nudo e di farne un tesoro da riscoprire. Quante volte osservandoci allo specchio, o guardandoci dentro, non ci piacciamo affatto? Forse in passato esistevano meno specchi, meno occasioni di confronto. Il mondo dove tutti sanno di tutti, in cui i social imperano, ha certamente amplificato questa visibilità. Di fronte ad un’immagine postata su Facebook, che non riceve il giusto consenso in termini di like, ci preoccupiamo se abbiamo sbagliato qualcosa, che cosa non funziona in noi. Photoshop, la chirurgia estetica e l’illusione di diventare immortali fanno il resto nel tentare di nascondere le nostre imperfezioni. Questo libro, come altri che sono usciti sul mercato in questi ultimi mesi, come ad esempio il successo editoriale di Alessandro D’Avenia con “L’arte di essere fragili” (Mondadori), ci stanno a dimostrare che non si può disconoscere la realtà dell’uomo. Possiamo girarci dall’altra parte, virtualizzarci, mimetizzarci, ma ad un certo punto dobbiamo fare i conti con la nostra essenza. Chi pensa di trovare risposte alle proprie “magagne” nel libro di Chelo, o in altri testi come questo, lasci perdere. Questo libro - “morbido e delicato” - va sorseggiato con calma, come meglio si desidera; certamente va fatto in un ambiente protetto dai rumori di fondo perché il lavoro da fare parte dalle osservazioni dell’autore, non certo finisce con le pagine che lo compongono. Ognuno ha le sue imperfezioni ed è per questo che ognuno deve cercarle, riconoscerle e apprezzarle. Capisci subito quando incroci qualcuno nella vita quotidiana che non ha il senso dei suoi limiti. E altrettanto intuisci immediatamente quando parli con qualcuno che non ha fatto pace con se stesso, prima che con gli altri. In una civiltà affascinante come il Giappone “quando si ripara un vaso di ceramica, le crepe vengono evidenziate grazie all’oro che si utilizza per incollare le parti. Le crepe, in virtù di questa pratica chiamata kintsugi, diventano così la parte più preziosa del vaso”. Non ci sono ricette precostituite o soluzioni miracolose verso la “perfezione perduta”. E’ un lavoro tutto personale che richiede pazienza e voglia di farlo. Sebastiano Zanolli, un altro “esploratore di senso”, scriveva in un recente post su Facebook: “Non si butta via nulla di questo viaggio, perché anche in queste frattaglie, in queste rovine, germogliano gli steli dei prossimi fiori e dai fiori nasceranno altre rovine e frattaglie. In un gioco inesauribile. Bello, brutto. Ma di sicuro mai stabile. Mai fermo. Questo è quello che sento. Che se sei vivo sei in movimento e se sei in movimento sei vivo. Sperare di congelare la perfezione è perdente. La perfezione è quando tu ti muovi fluidamente con il resto dell'universo. La perfezione non si lascia congelare”.
